SOPRAVVIVENZE
La nostra montagna, come realtà umana , conserva almeno per ora, tutto un patrimonio di legami col suo passato contadino: il fragile ponte dei ricordi, che va a svanire nel succedersi delle generazioni, gli ingombri delle cose vecchie , affidati tuttavia ai tarli e alla ruggine sugli 2spazzacà” o negli angoli delle stalle deserte le baite e i casolari delle contrade e dei maggenghi caduti in disuso, diroccati o raccomodati per le ferie estive ( chi l’avrebbe sognato, al tempo della loro costruzione) . Un grande museo, insomma , o forse un cimitero di cose in via di deperimento e di estinzione, da quando la scomparsa o la trasformazione del lavoro della terra ha fatto venir meno il contatto diretto fra la fatica quotidiana da una parte e gli attrezzi, gli utensili , i fabbricati e i siti stessi. Non tutto però vi è stato abbandonato. Sono rimaste sulla montagna valtellinese, delle isole di sopravvivenza, nelle quali gli oggetti sono ancora utili , delle attività che ripetono i modi antichi e vi si rinnovano i gesti pervenuti fino a noi da una lunga catena ereditaria. L’occhio affettuoso ed esperto del fotografo montanaro ha esplorato questi rifugi in cui le persone di oggi e le cose del mondo contadino di ieri resistono silenziosamente in un rapporto vivo, carico di naturalezza , ma pure intriso di una specie di senso del provvisorio, di sentore del tramonto. Fino a quando so continuerà a salire e a scendere per i sentieri dei prati , con le gerle ricolme sulle spalle ? per quanto tempo ancora saranno mantenute e curate le sipei dei viottoli , si lavorerà il latte sugli alpeggi o nelle case , come più o meno cento anni fa?. E le donne anziane fileranno con la rocca o staranno all’aspo e all’arcolaio o agiteranno il ventilabro per pulire le castagne?
Il mirino della macchina ritaglia con precisa definizione ciascun documento visivo di queste presente cosi remoto, ma il linguaggio lo investe e ne scopre e racconta anche la verità del sentimento .
I contrasti forti , a volte morbidi, e a volte bruschi del controluce , le atmosfere esterne sempre intense raramente distese nei grigi della descrizione distaccata “informano” , si, anzitutto, ma con una espressività che è insieme figura e commento. Ogni foto ha già in se la propria didascalia:. Le pagine fotografiche colgono ovviamente il dato immediato , uomini,donne,bambini, situazioni, volti, scorci; case e vicoli. Sotto questo punto di vista documentano l’esistente . si legge però, nelle medesime una narrazione “storica “ in quanto vi si capisce il dubbio che queste realtà , non più attuali, siano materiali rimasti li, dopo il tramonto , già avvenuto del loro mondo.
Ha indomani la vita collettiva in montagna o essa dispone di un presente , che resiste giorno per giorno , fin che può immerso nei ricordi?
Il bisogno di vedere chiaro in questa domanda ha ispirato il volume, che riflette le tensioni forse inconsapevoli della “condizione2 umana delle popolazioni montane, a cavallo fra il grande esodo e le nuove prospettive. L’acuto sentimento delle proprie radici , il desiderio di non disperderne l’essenza della cultura montanara , l’aspirazione a una identità nuova per tempi nuovi danno a questo discorso per immagini , oltre alla verità del racconto , il tono commosso di una testimonianza e di un omaggio alla propria terra.
https://www.adfontes.it/biblioteca/recensioni/sopravvivenze.html
https://www.tellusfolio.it/index.php?prec=/index.php&cmd=v&lev=105&id=4526
FORZA E DECORO SONO IL SUO VESTITO (PV 31,25)
Nel cassettone delle cose d’inverno conservo due calze di lana, bianca come un agnellino; non le uso ma una volta fra le mani ne sento la soffice rudezza, le vedo riempirsi di una luce calda e domestica, la stessa che accarezza il dorso del gregge che riposa
Le ha fatte, un pomeriggio al pascolo, una donna di Albaredo, una di quelle che si vedono sferruzzare nelle foto di questo libro, dalle sue mani sono usciti questi calzettoni simili a morbidi nidi. L’album raccoglie le foto che Giampiero Mazzoni dedica alla donna di montagna, come un canto sommesso, con l’insistenza di una litania, con il nome ripetuto in una corona di modi ma identica nel suono e nella sostanza: donna laboriosa, donna di solitudine, donna di preghiera, donna di povertà, donna di sacrificio.
La donna del piccolo pese aggrappato sul fianco scosceso della Valle del Bitto, lungo il tracciato dell’antica via Priula, non è molto diversa da quella che secoli fa vedeva passare tra le case uomini e muli, pellegrini e mercanti che trafficavano attraverso il soprastante passo S. Marco tra Venezia e i Grigioni. Così ogni altra donna delle vallate che l’obiettivo di Giampiero Mazzoni ha guardato con attenzione e ha colto con affetto e discrezione non assomiglia alla donna della casa moderna, dell’ufficio, della scuola, della fabbrica o del negozio: veste sobriamente, come una suora, calze di lana, grembiule, o gonna pesante fino ai piedi, zoccoli, sostituiti da prosaici stivali di gomma, panno allacciato sui capelli, uno scialle intrecciato sul petto. Da secoli si alza presto porta la legna accende il fuoco fa il formaggio scalda il latte lavora la lana e la canapa fa calze e golfini di lana tesse coperte di canapa fa pezzotti di stracci ha cura delle bestie, delle pecore delle capre delle galline delle mucche, assiste all’ uccisione del maiale, mangia poco, vanga il campo, come un uccello che graffia con gli artigli la terra dura, semina patate, pota e allaccia le vigne.
E’ in continuo movimento, ha sempre qualcosa da fare, cammina, sola o con u bimbo o una bestia accanto, per mulattiere che tagliano i ripidi prati o s’inoltrano in boschi profondi, senza paura del silenzio e della notte che incombe.
Sulle spalle ha la gerla, gonfia di fieno o di foglie per lo strame, pesante di legna o di letame che va a spargere con le mani nei prati, in mano ha i ferri per lavorare la lana o il rosario,
E’ difficile immaginare questa donna che riposa, che si gusta momenti di relax, o di intimità domestica. E’ silenziosa, come le sue bestie; ha poche parole, essenziali, dialettali, che costituiscono il suo vero linguaggio, che prende forma nella pellicola in bianconero, nella inquadratura a figura intera o a campo lungo, con la persona che si muove in spazio aperto.
A volte l’obiettivo entra in casa a cogliere un colloquio familiare attorno alla caldaia dove caglia il latte: spazio misurato, l’uomo discretamente in ombra, la donna fatta emergere con un leggero controluce.Giampiero Mazzoni ha documentato le giornate e le stagioni della donna di montagna fra le sue cose, nelle stalle, nelle cucine, nello spiazzo davanti alla baita mentre monda le castagne dal guscio; ha usato la luce buona, pacata per stare accanto a lei, per renderla protagonista dell’immagine, senza forzare i toni del bianconero, evitando i tagli di eccessivo contrasto; racconta senza enfasi nel grigio luminoso e sereno, la storia di queste donne che sulla soglia del 2000, ripetono i gesti delle loro mamme e delle loro nonne. Il nostro tempo appare un po’ stonato, affiora nei sacchi di plastica, negli stivali di gomma, nella gonna di jeans, inquina gli alpeggi dove invece è naturale preparare un materasso con le foglie di granoturco o di faggio, portate su dal paese.
Giampiero Mazzoni è vicino a questa donna, ne coglie la forza e la rassegnazione, la sua nenia antica, quando avvolge le sue spalle con le onde luminose dei prati, quando la pone al centro della chiarità della valle, quando nel controluce trasforma il pulviscolo delle castagne saltellanti nel vaglio in uno sciame di scintille attorno al volto duro di fatica, quando davanti alla cappella in ombra la osserva la soccorre nella fatica di affastellare i rami sparsi. La fotografia di Giampiero Mazzoni racconta, senza effetti spettacolari e senza far violenza sulla natura, la storia di una donna modesta, legata al suo dovere quotidiano, educata alla rinuncia capace di governare da sola la casa.
L’obiettivo si avvicina a lei, a volte ne guarda la forza o la fierezza a volte la sorprende fragile davanti alla natura l’accompagna per l’intera giornata, sapendo di compiere con lei l’ultimo viaggio. La nuova donna di montagna assomiglia a quella di Milano.
PIERGIUSEPPE MAGONI
Per quelli di noi che hanno avuto la ventura di essere bambini in un piccolo paese di campagna (a Rogolo per esempio) negli anni Cinquanta del secolo appena trascorso, i sapori, i rumori e perfino certi odori di allora rappresentano un segno indelebile fissato nel profondo dell’animo. Le mucche che affollavano le stradine del paese per andare ogni mattina all’abbeverata, con il rumore sordo e monotono, ma caro e familiare, dei loro campanacci. I riti di un mondo contadino - ormai inconsapevolmente al tramonto -, quell’insieme di gesti che scandivano immutabili da secoli le varie stagioni dell’anno: la semina, la fienagione, la vendemmia, la festa crudele dell’uccisione del maiale a dicembre … Uno dei momenti più affascinanti e misteriosi, almeno per me bambino, era quando – una volta all’anno - mio nonno Marco si preparava per accompagnare in alpeggio (sü’n mezzana) le sue tre o quattro mucche. Era una cerimonia che coinvolgeva l’intero paese, quasi un rito colmo di segreti, colorato dal racconto di viaggi precedenti costellati di pericoli. Mio nonno, con i contadini di Rogolo, partiva nel cuore della notte. Noi bambini dormivamo profondamente e al risveglio scoprivamo che le mucche del paese erano tutte partite per l’alpeggio. Oggi questo rimane un ricordo, tinto di rosa dalla nostalgia. Un ricordo che ogni anno si scolora sempre di più e che potrà sopravvivere finché noi siamo in vita e abbiamo una buona memoria, noi che abbiamo vissuto quell’esperienza. Poi anche Rogolo avrà perso per sempre, e irrimediabilmente, un’altra fetta della sua storia.
Invece, fra cinquanta o anche cent’anni, gli abitanti di Albaredo (e, con un’estensione a macchia d’olio, quelli delle valli del Bitto) avranno ancora nitide e chiare le immagini della cultura contadina che ha scandito il ritmo lento e sicuro delle giornate dei loro antenati. In un futuro lontano avranno a disposizione non una semplice narrazione di gesti, di riti e di attività, ma potranno rievocare la vita quotidiana di un tempo, con i suoi modi di pensare e di vivere, cogliendone la sostanza attraverso uno specchio ben più efficace: quasi 180 fotografie. E questo grazie a Gianpiero Mazzoni che, con il suo volume Pastori nelle valli del Bitto, uscito nell’estate del 2004, si riconferma un vero poeta. Un poeta che invece di scrivere con la penna, crea con la macchina fotografica. Immagini rigorosamente in bianco e nero che documentano con scienza e amore il mondo dei pastori. Con amore perché le fotografie denotano un’adesione profonda ai valori del mondo ritratto. Con severa scienza, perché Gianpiero è consapevole di fornire nello stesso tempo una testimonianza “storica”. Sono documenti di una cultura, di un modo di vivere che molto presto cambierà radicalmente. Il mondo tecnologico nel quale siamo immersi è come uno schiacciasassi che non trascura nessun angolo della nostra vita. Ne migliora le condizioni (il freddo, il dolore fisico, la fatica non sono più quelli di alcuni decenni or sono), ma ne modifica – cancellandone anche le tracce – ritmi e riti che, soprattutto nel mondo contadino, restavano immutati da secoli. Improvvisamente tutto cambia e molto scompare.
Questo libro è tanto più prezioso in quanto permette a un piccolo rettangolo di vita di lasciare, invece, una traccia profonda nel tempo. E’ un libro bello, con tante foto indimenticabili. E’ un libro che suscita emozioni. Di regola non ci si diverte e non si ride nelle fotografie di Gianpiero Mazzoni. C’è la fatica, c’è la solitudine. Il filo conduttore, l’accordo che risuona dalla prima all’ultima pagina, sottolinea un concetto chiaro: “è una vita dura”. Una vita che noi osserviamo affascinati, ma che difficilmente – mi verrebbe voglia di dire mai – saremmo disposti a condividere, almeno in questo modo. Il bianco e nero, poi, lo fa quasi apparire un libro senza tempo. Io credo che se un fotografo avesse immortalato le stesse scene, gli stessi soggetti nel 1904, cent’anni fa, pochissime sarebbero state le immagini diverse.
Gli oggetti, infine, che qui scoppiano di vita. Un conto è l’osservarli in un museo etnografico, freddi – come farfalle trafitte da uno spillone per essere esposte in una collezione. Fotografati nel loro ambiente sembrano riprendere vita, anzi sono segni di vita. C’è una fotografia, nella sezione intitolata “I pastori”, che apre alla speranza. Il sogno che questa vita non sia poi così dura come appare e che possa resistere un po’ di più è nel sorriso smagliante di tre cascìn (ragazzi pastori), che giustamente una didascalia definisce “beati”. Mi rendo conto che tutti questi commenti, queste considerazioni corrono il rischio di incrinare la bellezza di questo libro fotografico e perfino di stemperarne l’intensità. Questo libro fotografico va assaporato sfogliandolo con svagata lentezza. Ci penseranno le immagini a muovere i sentimenti. Pastori nelle valli del Bitto, infine, è la conferma della grande maestria di Gianpiero Mazzoni nel cogliere e nel raccogliere immagini del mondo contadino. E’ un volume importante (il terzo per Gianpiero Mazzoni), che non dovrebbe assolutamente mancare sullo scaffale di chi vuol conoscere, gustandola pian piano nel tempo, la cultura contadina della Provincia di Sondrio.
Renzo Fallati
Quando si parla di formaggi in Valtellina e in Valchiavenna, si deve fare obbligatoriamente riferimento al rapporto con il territorio dal punto di vista culturale,paesaggistico ed etnografico.
E facile, cosi, far emergere il riferimento alle varie produzioni casearie con le loro specificità, i loro valori, le genti, le pratiche che identificano spesso i luoghi di produzione, da Livigno alla Valle Spluga.
Un riferimento che, oggi, incita al mantenimento della biodiversità , sia animale che vegetale, che forma parte integrante della storia della cultura del nostro territorio e che in passato, ha consentito alle popolazioni delle nostre Vallate di sopravvivere , anche se, oggi, però, si pongono seri interrogativo per il futuro.
Proprio i formaggi che provengono dalle produzioni locali del territorio ricco di biodiversità grazie a prodotti artigianali stagionati in modo naturale , prodotti con metodi di un tempo, frutto di esperienze e professionalità di ottimi casari, rappresentano una parte importante del patrimonio agro-alimentare della Provincia.
Servono pochi elementi, latte, sale e caglio, per ottenere varie tipologie di formaggi che rispettino le tradizionali caratteristiche, conservando, sapori, profumi e gusti che sono la miglior espressione del rapporto prodotto-territorio.
valorizzare questi formaggi per la realizzazione di ricette per la preparazione di piatti, è un modo per far conoscere le piccole produzioni anche quelle più artigianali che portano alla scoperta della straordinarietà del mondo caseario del nostre valli.
Questa pubblicazione vuole essere una proposta inedita non solo perché consente di conoscere e valorizzare le produzioni casearie della Provincia di Sondrio, ma perché offre una proposta gastronomica, utilizzando la professionalità di due famosi schef, che con spiccata fantasia hanno sperimentato e propongono una serie di ricette in cui i formaggi sono l’elemento base per realizzare gustosi piatti. Un’idea che vuole aiutare a conservare un patrimonio con tipologie che sono una consuetudine della nostra tradizione, in cui spesso si utilizza come materia prima il latte crudo prodotto sul territorio da razze di bestiame autoctono alimentate al pascolo o con fieno; lavorando secondo tecniche e strumenti tradizionali stagionando il formaggio in modo naturale nei locali idonei per il tempo necessario alla sua maturazione.
Una proposta che amplia gli schemi della cucina tradizionale proponendo una formula culinaria strettamente legata al territorio, la cui ricchezza si basa su un originale e sapiente utilizzo dei formaggi della nostra montagna attraverso fantasiose ricette che esaltano i profumi e gli aromi dei più pregiati formaggi valtellinesi che faranno scoprire e gustare nuovi sapori gastronomici.
120 ricette frutto di ricerca nella cucina tradizionale della Valtellina e Valchiavenna suddivise in capitoli dagli antipasti, primi piatti, secondi, dessert e liquori. Testi introduttivi sui Vini e i formaggi Valtellinesi compreso il famoso formaggio Bitto sul Grano Saraceno. Le ricette sono state adattate da Chef Valtellinesi. Interessante il lavoro del dott. Francesco Avaldi nutrizionista, che propone il menu dello spostivo con prodotti Valtellinesi.
Diego Giovanoli
Rumori quotidiani nel carden / vivere i rumori del carden
I miei genitori salivano in alpe un paio di giorni prima degli zii, per cui mia mamma mi affidava a sua sorella, che per me era la zia Emilia, di casa in un carden. Era un carden antico, del Seicento, con le travi a vista fuori e dentro, e il soffitto della stüa del tipo trave-asse-trave, per cui nella camera sovrastante le gambe dei letti erano più corte sul lato interno. La zia Emilia mi preparava il lettone contro la parete liscia della stüa, quella con le cartoline dei saluti. Sul tardi ascoltavo dal mio letto il calpestio sulla scala di legno e il concerto tamburellante delle traversate sopra la mia testa, passi grossi misti al calpestio felpato della zia e ai piedi nudi dei piccini. Per alcuni minuti il parlottio pacato degli zii era come il fiato basso acuto basso di un unico sassofono, più armonioso di quello dei miei genitori. Di notte mi svegliavo di soprassalto ogni volta che lo zio, sceso rumorosamente dal letto, urinava con un inaudito zampillo nel vaso che teneva sotto il letto, anche se la stalla era a due passi . Ci andavo di sera. Fra la travi del fienile si alzava il fruscio sospeso del fieno ficcato con forza nella gerla, poi lo zio scendeva la scala esterna e scompariva con il carico in spalla nella stalla accolto dal trambusto delle bestie vogliose di foraggio. Le code legate frustavano il filo di ferro, poi tornava la calma ritmata dagli scrosci bassi della mungitura e dal rimastico sommesso delle bestie, raramente interrotta dagli avvertimenti del mungitore.
CRISTIAN COPES
Come ha scritto Paolo Raineri nei suoi studi sull’architettura rurale delle Alpi centrali, fino al Quattrocento le dimore agricole valchiavennasche e, in particolare, quelle della val San Giacomo sono caratterizzate da una parte, costruita a monte, in pietra o muratura, la cosiddetta chjä da föç (casa del fuoco) o cascina, dov’è il focolare, e una parte orientata verso valle in legno che, a seconda del momento, fungeva da soggiorno o da camera da letto. Essendo più esposta al sole, quest’ultima porzione dell’edificio è chiamata localmente solé ed è costituita da quattro pareti di travi ben squadrate sovrapposte orizzontalmente, lunghe tra i 3 e i 6 m, alte fino a 60 cm e di sezione compresa tra i 6 e i 15 cm, incardinate nei punti di incrocio quasi in corrispondenza delle estremità. A partire dalla fine del XV secolo il solé non è solo raccordato longitudinalmente alla porzione in pietra della casa, ma si trova al di sopra della stessa, mentre, in altri casi, la chjä da föç e il solé costituiscono due veri e propri edifici separati, come a Vamlera, alpeggio nel comune di Madesimo.
Ancora abbastanza diffuso fino alla metà dell’Ottocento, questo tipo di dimora in legno è chiamato carden, dall’antica tecnica dell’opus cardinatum, di cui parla Vitruvio nel suo trattato sull’architettura, dedicato all’imperatore romano Augusto. Oltre alle abitazioni, i fienili sono costituiti da tronchi sovrapposti e incardinati, privati della corteccia e aventi un diametro compreso tra i 9 e i 25 cm, le cui intercapedini facilitavano la ventilazione all’interno dell’edificio, necessaria per il mantenimento del fieno.
LA BAITA DELLA VALLE SPLUGA - DETTAGLI
Nella cascina il pavimento è in terra battuta con grandi lastre di pietra e, in assenza de oltre alla catena in ferro per sorreggere i paioli, a lato del focolare c’è la scigógna, sostegno girevole in legno utilizzato per spostare agevolmente sul fuoco le pentole e, nella lavorazione del latte, le grosse caldaie da 80-100 litri. In mancanza di una canna fumaria, nella ca del föoch il fumo usciva dagli interstizi del tetto e, al contrario del pavimento della cascina, quello del solée e dei fienili è costituito da tavole di legno poggianti su travi. Queste sono incastrate tra loro per mezzo di scanalature e, lungo il perimetro del locale, in apposite fessure ricavate nelle travi che, per garantire una maggiore stabilità della struttura, sono di solito collegate – le une alle altre – da chiodi in larice lunghi una ventina di centimetri.
Nel solée c’è la pigna, tipo di stufa di forma riconducibile a un parallelepipedo di circa 1 m di larghezza e lunghezza con un’altezza che varia tra i 100 e i 120 cm. Talvolta la pigna ha gli angoli smussati e, in genere, le pareti in muratura e la copertura costituita da un’unica lastra in pietra. Nei vecchi manoscritti e, in particolare, negli atti rogati dai notai valchiavennaschi tra il Quattrocento e il Settecento, per la presenza della pigna questo locale è chiamato “stupha”. In un documento conservato all’archivio di Stato di Sondrio, steso dal notaio di Campodolcino Tommaso Tomella il 26 febbraio 1583 (ASSo, Notarile, cart. 2122), si parla di un carden in val Febbraro, in località Prato della Mottala, parte del quale fu acquistato da Bernardo Sciaini di Pratomerlano, nell’attuale comune di Campodolcino. Nell’atto si descrive l’edificio, con il tetto rivestito in piode e il piano seminterrato in pietra, occupato da una “canepa” [cantina], e quello soprastate in “ligniaminum” [in legno], all’interno del quale c’è una “stupha” [un solée con la pigna] e, accanto, una camera [un altro solée, ma privo della stufa]. Raccordata a monte del locale con la pigna c’è la “domo a fuocho, retro dicte stuphe”, cioè la chjä da föç, posizionata – per l’appunto – dietro il solée con la stufa.
Chiusa ermeticamente e addossata a una delle pareti o a un angolo del solée, la pigna veniva caricata attraverso uno sportello posto nel locale adiacente, che spesso era la cascina. In mancanza di un secondo ambiente al chiuso, il caricamento avveniva direttamente dall’esterno dell’edificio, come si vede in un bel carden della famiglia Paggi a Canto, sopra Isola di Madesimo, le cui pareti in legno sono state, in corrispondenza di un angolo dell’edificio, rivestite da un muro in pietra e calce. Oltre ad essere utilizzata per scaldare il solée, la pigna serviva per tenere in caldo i cibi, grazie anche alla presenza di piccole nicchie, e per asciugare i panni stesi su appositi bastoni collocati sopra la stufa e incastrati alle pareti e a un palo. Questo è posizionato in corrispondenza di un angolo della pigna che, normalmente, lungo i suoi lati liberi, presenta un sedile in legno.
IL MATERIALE IMPIEGATO
Analogamente alla pietra, anche il tipo di legname impiegato per costruire il carden – chiamato in val Bregaglia balz – era quello che si trovava sul posto: il larice e l’abete sopra i 1000-1100 metri di quota e, a latitudini inferiori, il castagno, utilizzato a Uggia e Dalò, nel comune di San Giacomo Filippo, e a Voga, frazione di Menarola. Solitamente le tavole di legno sono alte 20-30 cm e, come ha rilevato lo stesso Raineri in un carden della famiglia Cavatorta a Rasdeglia presso Isola, non sempre le travi sovrapposte dei solée hanno la medesima lunghezza. Ciò determina una sporgenza irregolare dal punto d’incastro delle stesse, spesso maggiore alla base, poggiante sulla muratura dell’edificio e, anche per fungere da mensola, in corrispondenza del tetto.
Particolarmente adatte per costruire i carden, le travi in larice venivano a volte affumicate per ostacolare l’attività dei tarli. Non di rado la trave lungo il colmo della copertura, detta colmegna, nella parte sporgente verso l’esterno porta incisa una croce o una “X” e, talvolta, l’anno e le iniziali del proprietario che fece costruire o restaurare l’edificio. In altri casi i millesimi, le lettere e i simboli sono sugli architravi in legno delle porte di accesso all’edificio e, meno frequentemente, sopra quelli delle porte interne. Quasi sempre il carden, che spesso presenta una pianta riconducibile a un quadrato, poggia su una base in pietra a vista o pietra e calce che, oltre a svolgere la funzione di fondazione, isola la struttura lignea della costruzione dall’umidità che sale dal terreno.